Pagina:Emma Perodi - Roma italiana, 1870-1895.djvu/186


— 174 —

avevano tormentato nei giorni precedenti, accompagnata da un dolore al lato destro del petto. Il dottor Saglione, medico curante del Re, si accorse subito che il male era grave e volle fosse chiamato il Baccelli, e si telegrafasse al professor Bruno, altro medico del Re, a Torino.

Il Baccelli nella sera fece una prima visita a Sua Maestà e prese la direzione della cura. La domenica giunse il prof. Bruno e fu tenuto un consulto. I medici furono concordi nel riconoscere che si trattava di una pleuro-polmonite destra, con minaccia di complicazione malarica. La mattina del giorno 7 i medici tennero un nuovo consulto e notarono nello stato dell’augusto infermo un sensibile miglioramento. Il Re aveva potuto dormire qualche ora nella notte e si sentiva più sollevato.

In questo senso erano redatti i bollettini, forse per non allarmare la popolazione, ma con tutto ciò la malattia era grave ed i medici lo riconoscevano, tanto che fu telegrafato a tutti i membri della famiglia Reale. Il principe Umberto sospese la partenza per Firenze, ove doveva andare per i funerali del general Lamarmora, morto il giorno 6, e il Presidente del Consiglio rimase in permanenza al Quirinale, ove andavano pure ogni momento i ministri Crispi, Bargoni, Magliani e Mancini, senza però essere ammessi nella camera del Re, che era a pianterreno del palazzo reale.

La notte dal 7 all’8 fu meno tranquilla della precedente, e la febbre aumentò; il Depretis quella notte rimase al Quirinale e da tutte le corti giungevano telegrammi chiedendo notizie di Vittorio Emanuele. La popolazione di Roma era afflitta, ma non costernata. I bollettini, e soprattutto la fiducia che la forte fibra del Re potesse vincere il male, impedivano che il popolo credesse prossima la fine di lui.

Però nel giorno 8 si cominciò a sospettare la verità dall’andirivieni di carrozze al Quirinale; e tutti volevano aver notizie e le numerose edizioni dei giornali andavano a ruba, ma in tutto quel giorno non vi fu mai pericolo imminente; questo si manifestò la mattina del 9, verso le 4. I medici, che non si dipartivano dal letto dell’infermo, se ne accorsero. Difficile il respiro, depressi i polsi; il male faceva rapidi progressi. Degli ufficiali di servizio furono mandati ad avvertire i Principi, i Ministri e i grandi dignitari di Corte.

Intanto si fece respirare al malato una certa quantità di ossigeno, ma anche questa inalazione giovò poco, e i medici non seppero più nascondere che la catastrofe era vicina.

Ogni ora che passava rubava anni di vita al Re.

I Ministri e gli alti dignitari di Corte, dopo una breve discussione, stabilirono di chiedere al Sovrano se desiderava ricevere i sacramenti, e di questa missione fu incaricato il dottor Bruno, che era il più antico dei medici di Corte.

Il Re si volse al medico e gli rispose in tono sereno e tranquillo:

«Dunque sono ben grave?»

Il dottore pronunziò alcune parole confortanti, assicurando che era soltanto una precauzione.

«Venga pure» rispose nuovamente il Re.

Appena Vittorio Emanuele ebbe accondisceso a ricevere i Sacramenti, monsignor Anzino si presentò, e il Re fece a lui la confessione, quindi il canonico di Corte andò alla vicina chiesa dei SS. Vincenzo e Anastasio per chiedere il Viatico. Il curato non volle prendere sopra di sè la responsabilità di quell’atto, ed andò a interpellare il Cardinal Vicario, il quale già dal Papa aveva ricevuto ordini e ricondusse il parroco nella sua carrozza alla chiesa, e fece consegnare il Viatico al sacerdote di Corte.

Pare che il canonico Anzino avesse comunicato al parroco che il Re confessandosi gli aveva detto: