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nistro di Francia, bell’uomo, alto e robusto, col volto circondato dalla barba, che aveva ai lati i segretari signor Tiby, signor de Grouchy, signor d’Hérisson e il capitano di Stato maggiore, signor Lemmoine, addetto militare. Gli altri palchi erano tutti occupati dalle più belle signore di Roma, le quali in quella occasione sfoggiavano abiti ricchissimi e magnifici gioielli.

Si davano i «Goti» del maestro Gobbati.

Il Re, dando il braccio alla principessa Margherita entrò prima delle 10, quando già era per terminare il 1° atto, nel palco reale; tutte le signore si alzarono sventolando i fazzoletti, tutti gli uomini gridavano: «Viva il Re!» Due volte S. M. dovette affacciarsi a ringraziare. Sul maschio volto di Vittorio Emanuele si vedevano le tracce della commozione e della stanchezza della giornata, ma egli sorrideva di compiacenza sentendosi tanto amato. All’uscire dal teatro nuovi e ripetuti applausi; per via fuochi di bengala e gridi della folla plaudente. Nel giungere al Quirinale egli dovette affacciarsi per contentare il popolo di Roma, che non era ancora sazio di acclamarlo.

In quel giorno memorabile la casa militare donò a S. M. una medaglia d’oro con una iscrizione dettata dal conte Sclopis; la Casa civile una spada di superbo lavoro; gl’impiegati della Lista civile una canardière della fabbrica Richards, abbellita con incisioni e fregi dell’armaiuolo napoletano Alfonso Izzo; le dame romane un immenso trionfo di fiori, accompagnato da un indirizzo nobilmente redatto. Il primo a far gli augurii a S. M. fu il piccolo Principe di Napoli, il quale appena vestito venne condotto nel quartiere del Re e gli disse, col suo linguaggio infantile, tante cose affettuose.

Il Re in quella occasione mise a disposizione del sindaco 10,000 lire per esser distribuite ai poveri.

Le cortesie del signor de Noailles non si limitarono agli augurii e alla sua presenza alla rappresentazione dell’«Apollo», ma fece issare sulla nave «Orénoque» ancorata a Civitavecchia, la bandiera italiana al posto d’onore. Il comandante, forse appoggiato dal signor de Courcelles, non voleva, e il signor de Noailles dovette fargli telegrafare dal ministro della marina. Pio IX quando ne fu informato fece una terribile sfuriata e ordinò al cardinale Antonelli di comunicare al signor de Courcelles che egli voleva che l’«Orénoque» ritornasse subito in Francia, L’Antonelli riuscì a calmarlo, e l’«Orénoque» rimase, ma sotto gli ordini del ministro de Noailles, e non più sotto quelli dell’ambasciatore de Courcelles.

Mentre il Papa era in queste disposizioni d’animo, un filantropo, il sacerdote piemontese don Bosco, venne a Roma col generoso proposito di tentare una conciliazione fra lo Stato e la Chiesa. Egli vide il Papa, il cardinale Antonelli, vide il Minghetti e il Vigliani, ma non concluse nulla. Nell’udienza ultima disse a Pio IX di scusarlo per il disturbo che avevagli recato, e il Papa gli rispose che era sempre contento di vedere un sacerdote così stimato come lui.

Cosi terminò la tanto annunziata missione di don Bosco, che nessuno avevagli affidata, e che da sè solo erasi imposta.

Le cucine economiche sorsero, ma non per iniziativa di chi avevane propugnata la necessità nel comizio dello Sferisterio, ma per gli aiuti dei signori don Maffeo Sciarra, don Romualdo Braschi, Felice Ferri, Vincenzo Tittoni, Luigi Sindici e Mauro Macchi. Esse erano stabilite a Termini, a San Nicolò de’ Cesarini e a San Bartolommeo all’isola. Dell’andamento occupavasene specialmente la «Società Operaia Centrale», piccola società modello, sorta da poco. Per 35 centesimi fornivano minestra col brodo, una porzione di carne e il pane. Quella di Termini era la meno frequentata, ma le altre due dispensavano moltissime porzioni, però non in rapporto con la popo-