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ciosa, e con voce altitonante. Armati di sferze, di verghe, di staffili, noa hanno che a decidere del castigo, essendo essi nello stesso tempo, e parti, e giudici, e carnefici. Rassomigliano proprio a quell’asino della favola, ch′essendosi posta indosso la pelle d’un lione, credevasi al par di lui valoroso. Il loro sucidume sembra ad essi una vera mondezza; il puzzo è il loro profumo, e credendosi tanti re in mezzo alla miserabilissima loro schiavitù, non vorrebbero cambiare la loro tirannide con quella di Falaride o di Dionigi. Quello poi che soprattutto contribuisce a renderli felici è quell’alta idea che eglino hanno della loro erudizione. Sebbene non facciano che infondere insignificanti parole, e insulse frivolezze nelle menti de’ giovani alla lor cura affidati, pure, Dio buono! credono un nulla a confronto di essi e i Palemoni, e i Donati1. Non so neppure con quai prestigj sappiano costoro infatuare le goffe madri, e gl′idioti padri de′ loro scolari, a segno di farsi tener da essi realmente per que’ valenti uomini che si vanno da loro medesimi spacciando. Aggiungiamo a ciò anche quell’altro genere di piacere ch’essi provano ogni qualvolta riesce loro di scoprire in qualche vecchia cartaccia tutta sporca e guasta dai tarli, il nome della madre d’Anchise, o qualche vocabolaccio comunemente ignoto, bubsequam, per esempio, bovinatorem, manticulatorem; o se hanno la fortuna di scavare qualche pezzo d’una lapide antica, sulla quale trovinsi scolpiti dei caratteri tronchi. Ah per Giove immortale! Che tripudio, che trionfo, che applausi! Non fu certo più lieto Scipione per aver soggiogata l’Africa, nè Dario per la conquista di Babilonia. È indicibile la gioia che

  1. Patemone e Donalo furono due celebri grammatici.