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le persone, e persino i morti più sacri, e persino i fanciulli innocenti, destavano in lei dubbi atroci, diffidenze amare, rancori profondi, egli solo, egli solo le destava pietà, tenerezza, amore, e una dolcezza struggente e calda come la cera accesa. Ed intanto doveva vederlo, lo vedeva morire, e doveva desiderargli la morte; e curandolo con tenerezza attenta, doveva desiderare che i medicamenti, che le cure, che tutto fosse inutile. E questa morte, questa cosa orribile che ella doveva desiderare al suo «fratellino», oltre il dolore profondo per sè stessa, doveva recarle un’altra cosa più orribile ancora: la denunzia del delitto.
Ma ciò che era più triste di tutte queste cose, per zia Anna-Rosa, era che il malato s’accorgeva dei sentimenti di lei.
Infatti, al terzo giorno della malattia, Isidoro portò con gran mistero una medicina prestatagli dal sagrestano. Questa medicina era composta d’olio d’oliva entro cui avevano galleggiato tre scorpioni, un centopiedi, una tarantola, un ragno, un fungo velenoso: guariva qualsiasi puntura. Zia Anna-Rosa unse subito la mano gonfia e livida del malato: ed egli lasciò fare, guardando attentamente la mano, ma poi disse con voce calma:
— Perchè mi curi, Anna-Rò? Non vuoi tu che io muoia?
Ella si sentì spezzare il cuore.
— Fatto anche questo! — disse poi Giacobbe, guardando Isidoro. — Ma se io non morrò, come farete voi?