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— chiamiamolo così — e s’affacciò alla porticina per guardare.

Il crepuscolo era freddo, verdognolo e luminoso. Un gruppo di persone, per lo più donne, nere sull’aria limpida, s’avanzava verso il rialzo, suonando e cantando. Isidoro capì di che si trattava e andò incontro al gruppo. Le donne, una ventina tra vecchie e giovani, cantavano a mezza voce e con tono saltellante eppur melanconico, una bizzarra canzone, o meglio uno scongiuro contro il morso della tarantola, accompagnate dal suono monotono d’uno strumento primitivo, chiamato serraia, specie di cetra con la cassa formata da una vescica di maiale secca.

Un giovinetto mendicante, pallido e cieco, stranamente vestito con abiti da donna laceri e sporchi, suonava il bizzarro strumento.

Altri tre uomini si distinguevano nel gruppo, ed in uno di essi, dal volto acceso e febbricitante, con una mano fasciata, Isidoro Pane riconobbe Giacobbe Dejas.

Il pescatore si avanzò, si mischiò al gruppo, toccò con un dito la mano fasciata del servo, mentre Giacobbe lo fissava con occhi pieni di profondo terrore.

— Hai paura di morire? Per un morso di tarantola? che, che! — disse zio Isidoro sorridendo.

Le donne cantavano sempre: erano sette vedove, sette maritate e sette ragazze. Tra le vedove c’era la sorella di Giacobbe, che gli veniva a fianco, rosea e fresca nonostante il grave dolore che la opprimeva; la sua vocina sottile e stridente come il canto d’un grillo emergeva, saltellante, fremente, al di sopra di tutte.