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capitolo xxvii. 277

tanto coraggio o forza di trarre il corpo da quelle angustie in cui di mio proprio volere l’ho posto.

“Ecco, o signori, la storia dolente della mia disgrazia. Ditemi ora: si può ella narrare con minor dolore di quello che in me avete veduto? Ora non vi date punto fastidio o nel consigliarmi o nel persuadermi ch’io mi appigli a quel rimedio che la ragione potrebbe indicarvi come il più atto a guarirmi, ch’io ne trarrei quel profitto che può produrre una medicina ordinata dal medico ad un infermo che si rifiuta di prenderla. Non cerco salute senza Lucinda: e poichè piace a lei di essere d’altri, mentre è o dovrebbe esser mia, piacerà a me di essere vittima della sventura, quando avrei potuto vivere felice in sua compagnia. Ha voluto essa colla sua incostanza la perdita mia, ed io appagherò le sue brame procurando di perdermi: e sarà esempio ai posteri che a me solo mancò fin quello che rimane ai più grandi sventurati, ai quali suole recare alleviamento la impossibilità di ottenere l’oggetto amato; mentre anzi è per me sorgente di nuovi mali e di maggiori fatalità, perchè io porto opinione che non si possa finirla neppure colla morte„.

Qui pose termine Cardenio al suo lungo ragionamento e alla sua tanto dolente quanto amorosa istoria. Mentre si disponeva il curato a dirgli alcuna parola di consolazione, tacer lo fece una voce che gli giunse all’orecchio, e che con espressioni di dolore diceva ciò che si leggerà nel seguente capitolo.