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parenza d’un male degli altri, si afferma implicitamente libero da quello, e concede a quelli che lo ascoltano d’esserne liberi anch’essi, per aver da loro quando che sia a sua volta la concessione. Nelle comunità amichevoli che fioriscono della comune vanità ognuno vive della morte di chi è fuori della comunità. Ma nella sua solitudine ognuno si ringhiotte nel suo stomaco vuoto il marcio e l’amaro di quelle conversazioni micidiali. Questo sono le compagnie di cui sono lieti i tuoi uomini.
N.
— Ma pure converrai che per avere una donna, bisogna che uno voglia ch’essa lo ami; per essere un artista bisogna voler essere un artista; e quelli così e diventano artisti e posseggono le donne. E così, in ogni cosa, non ti serve voler platonicamente la cosa, ma bisogna che tu ti faccia quello per cui la cosa ti venga di diritto.
R.
— Hai uno strano modo di dire: «che la cosa ti venga di diritto». E con questo intendi sempre, credo, ciò che ci vien tributato dagli altri.
N.
— Certo. O amore o stima o gloria.
R.
— Ma vale ancora quanto abbiamo stabilito, che queste cose non fanno piacere per sè stesse, ma pel giudizio che contengono!
N.
— Certo.
R.
— E allora che resta da dire?
N.
— Resta che senza questi la vita è infelicissima.