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che il Clero rinunzii ai feudi e a tutte le grandezze secolari, e che in cambio di questo abbandono gli sia restituita intera la sua libertà, proposizione sublime, trovandosi la Chiesa in quello stato, e di cui non fu fatto dagli scrittori delle ecclesiastiche istorie il conto dovuto; a cui resta ancora di render giustizia; e le meditazioni degli avvenire gliela renderanno, facendol brillare come uno de’ fatti più luminosi della storia della Chiesa. Sebbene tanta sublimità e bellezza della proposta di Pasquale, degna degli Apostoli, rendevala appunto agli occhi de’ suoi contemporanei strana, assurda: il Clero di Germania in udendola inorridì, si rivoltò contro il Papa, e rivoltò l’imperatore che pur l’avea da parte sua accettata e giurata: nè altro poteva aspettarsene. Ecco di nuovo l’affascinamento del Clero prodotto da’ beni temporali impedire per la terza volta, almeno, la pace fra il sacerdozio e l’impero: e l’impero togliersi all’ubbidienza della Chiesa per farsi ubbidiente e servo del Clero corrotto, lusingato e invanito del fumo di una vana adulazione, con cui questo genere di Clero, che non ha nè dignità nè libertà da vendere, sempre lo si guadagna. L’impero è dunque un puro pretesto, e accessorio nella gran lotta: il Clero corrotto giunge scaltramente a involgere l’impero nella sua propria causa, e combatte per sè a nome de’ diritti dell’impero, e col braccio di questo. Ma udiamo pure Pasquale.
Egli scrive all’imperatore in questa forma: «È sancito dalle istituzioni della divina legge, ed è proibito da’ sacri canoni, che i sacerdoti si occupino di cure secolari, nè vadano alla corte, se non forse per intercedere a favore di condannati o di altri a cui venga fatta ingiustizia — Ma nelle parti del vostro regno i Vescovi e gli Abati sono a tale da cure secolaresche occupati, che non possono a meno di frequentare assiduamente la corte e di esercitare la milizia; — e i ministri dell’altare son divenuti ministri di Stato, avendo ricevuto, dai re le città, i ducati, i marchesati, le zecche, le castella, ed altre cose pertinenti al servizio del regno. E di qui è prevalso un costume nella Chiesa, che i vescovi eletti non ricevessero più la consecrazione, se prima per mano del re non fossero investiti1. Talora anco ne vengono investiti altri, vivendo tuttavia i Vescovi: Ora da questi mali e da altri senza numero, che ben sovente accadevano per cagione di quell’investitura, furono scossi i nostri predecessori di felice memoria Gregorio VII e Urbano II, e ragunando frequenti Concilii di Vescovi, dannarono quelle investiture fatte per mano laicale; e se v’avessero cherici che tenessero per così fatto mezzo le Chiese, stimarono doversi essi deporre, e quelli che gli ebbero investiti scomunicarsi, a tenore del canone apostolico che dice così: Se un Vescovo, facendo uso della potestà del secolo, ottenne con tal mezzo una Chiesa, sia deposto, e scomunicati quelli che con esso comunicano — Per le quali cose noi comandiamo che sieno rimessi a te, o re Enrico figlio carissimo, e allo stato que’ diritti legali che manifestamente allo Stato appartenevano ne’ tempi di Carlo, di Lodovico, di Ottone e degli altri principi tuoi predecessori. E interdiciamo e proibiamo sotto il rigore dell’anatema, che quinci innanzi nessuno de’ Vescovi o degli Abati presenti o futuri invadano i regali diritti, cioè le città, i ducati, le marche, le contee, le zecche, le imposte, le avvocazie, i diritti de’ centurioni, e tribunali regi con loro pertinenze, la milizia e i castelli — Decretiamo poi che le Chiese rimangano libere colle loro oblazioni e possedimenti ereditarî che al regno manifestamente non appartenevano, come tu nel giorno della tua coronazione hai promesso all’Onnipotente Signore nel cospetto di tutta Chiesa2.»