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della nazione tutte le ecclesiastiche proprietà; raccogliendo così la rivoluzione fatta a nome della civiltà l’eredità e le spoglie del Feudalismo.

140. La seconda massima, che proteggeva la chiesa dalla corruzione che da sè arrecar possono i beni terreni, si era che «questi si possedessero, si amministrassero e dispensassero in comune.» — Così i primi fedeli deponevano il prezzo delle case e de’ Campi venduti ai piedi degli Apostoli, ed era dispensato a’ fedeli, secondo il bisogno di ciascheduno, pro ut cuique opus erat (Act. iv, 35). Qual carità non fomentava in quel primo tempo, qual’unione non adduceva tra fedeli, e tra fedeli e clero questa comunanza di beni! «La moltitudine de’ credenti avea un cuor solo ed un’anima sola; nè alcuno di essi diceva sue quelle cose che possedeva, ma tutte erano comuni (Ivi, 32.).» Il dolce spettacolo che offeriva questa fraternità, non mai conosciuta, in Alessandria, indusse Filone, benchè ebreo, a scriverne un libro elogistico. In lei mirarono sempre i Santi come nel più bel tipo dell’Evangelica dilezione, e si sa dalla storia quanto il Grisostomo ebbe desiderato di poterla introdurre fra il suo popolo di Costantinopoli: ell’era la perfezione di quanto narra Livio de’ bei tempi di Roma; dove dice, che il censo privato era breve, largo il comune.

141. La qual massima si conservò lungamente nel clero. Di tutto l’avere della chiesa erano depositarii i Vescovi successori degli Apostoli, i quali distribuivano, per lo più mensilmente, quanto era necessario a’ Chierici che sotto di essi lavoravano nell’Evangelio; niun individuo aveva cos’alcuna in proprio. Quando Costantino nel 321 permise le disposizioni testamentarie a favor della chiesa, così s’espresse: «Abbia ciascuno licenza di lasciar morendo i beni che egli stima al santissimo cattolico e venerabil concilio della cattolica chiesa (Cod. de sacros. Ecclesiis L. 1.).»

Più tardi fu anche espressamente proibito dalla chiesa il concedere a un individuo del clero qualche porzione di beni separandola dalla massa comune, come dimostra un rescritto del v secolo attribuito al santo Papa Gelasio; e ciò anco pel fine che i beni ecclesiastici fossero meglio amministrati e conservati1. Dal quale spirito medesimo della chiesa fu dettata la legge di Valentiniano vietante il lasciare legati o eredità agl’individui del clero secolare o regolare2, legge di cui non fecer lamento i santi uomini di quelle età, come un Ambrogio, e un Girolamo, ma ben si dolsero degli ecclesiastici che, a loro smacco, l’avessero meritata. « Nè io mi lagno dice Girolamo, della legge; sì mi addoloro dell’averla noi meritata. Il cauterio è eccellente, ma a che m’avrò io la ferita di necessitarmi il cauterio? Sia erede, ma la madre de’ figliuoli, cioè la chiesa, sia erede del suo gregge quella che lo generò, lo nutrì, lo pascette. Perchè ci tramettiamo noi tra la madre ed i figli?3.» Così non volea il Santo che gl’individui del clero o del monacato si tramettessero fra la chiesa depositaria delle pie offerte, ed i suoi figliuoli a cui ella, secondo il bisogno, le compartiva. La quale unità dei beni comuni, della sapienza e carità vescovile col consiglio del clero4 ammini-

  1. Gratianus, Caus. xii. C. xxiiinec cuiquam Clerico pro portione sua aliquid solum Ecclesiae putetis deputandum, ne per incuriam et negligentiam minuatur: sed omnis pensionis summam ex omnibus praediis rusticis urbanisque collectam ad Antistitem deferatis.
  2. L. Valentiniani 20. De Episcopis et Clericis Lib. xvi. Cod. Teod. Tit. 2 ad S. Damasum R. P.
  3. Ep. ad Nepotianum. — S. Ambrogio del pari facendo menzione di questa legge di Valentiniano dice: Quod ego non ut querar, sed ut sciant quid non querar, comprehendi, malo enim nos pecunia minores esse, quam gratia. A cui poco appresso aggiunge altresì: «La possessione della Chiesa è lo spendio de’ poveri. Numerino quanti captivi abbian le Chiese redenti, quanti alimenti agl’indigenti dati, quanti sussidii al vitto degli esuli somministrati.» Epp. Ci. I, ep. xvii.
  4. Etenim ea aetate, dice il Berardi, parlando di questo appunto, quotiescumque nego-