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atto quinto 79


Mastica. Non chiami me?

Sennia. Non ci sei dunque?

Mastica. Questo nome non convenne mai né a me né ad alcuno di miei antecessori.

Sennia. Vien qua dunque, ribaldo piú d’ogni ribaldo.

Mastica. (Questa vecchia sta con gli occhi rossi come avesse pisto cipolle: non so che se l’aggira per lo capo. Certo ará scoverto qualche cosa di Lampridio e n’ha rabbia e dispetto. Oh che tutta la casa fusse a questo modo e che a me solo toccasse una volta empirmi la pancia a mio modo!).

Sennia. Vien qua presto! che borbotti?

Mastica. Avertete, padrona, ch’io non ho colpa nessuna nelle cose di vostra figlia, avertete.

Sennia. L’escusarsi senza bisogno è un manifesto accusarsi. Dimmi un poco: ti par cosa convenevole che tu, nato e allevato in casa mia e sempre ben trattato, m’abbi tradito nel modo che hai tu fatto?

Mastica. Io traditore? questo non si troverá mai.

Sennia. Portarmi un prosontuoso dinanzi, con dir che sia mio figlio per farlo adultero di mia figlia!

Mastica. Oh! che io perda l’appetito per dieci giorni e il gusto del vino se so nulla di ciò che dite.

Sennia. Lo nieghi ancora?

Mastica. L’arciniego ancora. Ti giuro per questo stomaco e questa gola come non so nulla di quanto dite.

Sennia. Dunque non sei stato tu?

Mastica. Voi proprio il dite.

Sennia. Cosí cotesto stomaco ti sia aperto e a cotesta gola ti sia posto un capestro dal boia, che non mangi né bevi piú mai, come tu sei stato cagion d’ogni cosa!

Mastica. Se trovarete tal cosa, voglio esser squartato e attaccato per li piedi alle dispense come presciutto, e i miei quarti come carne salata.

Sennia. Ma io non vo’ darti altro castigo se non che in questa casa, che tu hai sí poco onorata, non habbi piú mai da mettervi il piede.