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atto quinto 291


Don Rodorico. Caro figliuolo, non sapevo l’animo vostro: ho avuto pietá della sua vita come una imagine della vostra; e stimava che a questo vostro fratello, ancorché fusse vostra moglie, per compiacergli glie l’avessi concessa.

Don Ignazio. Il voler tôr a sè e dar ad altri mi par cosa fuor de’ termini dell’onesto.

Don Flaminio. Ella è mia moglie; e non comporterò mi sia tolto quello con violenza che mi ho procacciato per l’affezion del mio zio e acquistato con ragioni dal padre e con la fede. Fatto il contratto, volete voi rompere le leggi del matrimonio?

Don Ignazio. Io non rompo le leggi del matrimonio, ma difendo le mie ragioni con un’altra legge. Ed io non patirò che un frettoloso decreto sia fatto con infame pregiudizio dell’onor mio; e ti conseglio che lasci tal impresa, perché verremo a cattivo termine insieme.

Don Flaminio. Pazzo è colui che accetta consigli dal suo nemico: e meco venghisi a qualsivoglia termine, ché con l’armi son per difendere quel che la mia sorte m’ha donato; e te lo giuro da quel che sono.

Don Ignazio. D’ingannatore e di traditore!

Don Flaminio. Don Ignazio, se, mentre siamo vissuti insieme, t’ho fatto altro inganno e tradimento fuor di questo, veramente son un ingannatore e traditore; se questo, che ho fatto per amore, si ha da chiamar «tradimento», diffiniamolo con l’armi.

Don Rodorico. Don Flaminio, tu parli troppo liberamente e fuor de’ termini.

Don Ignazio. Zio, voi ne sète cagione, ché la vergogna degli errori commessi, quando vi si trapone autoritá d’uomo degno, diventa audacia. Si è fatto superbo per la mia viltá, ché se per l’offesa fattami l’avesse dato il dovuto castigo, non saria tale. Ma ella sará mia, o che tu voglia o non voglia; e diffiniamolo con l’armi. E ti ricordo che alla vecchia tu aggiungi nuova offesa.

Don Flaminio. Chi m’ha da tôr Callidora me la torrá per la punta della spada!