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atto primo. 13


Balia. Non vo’ quel che tu pensi.

Mastica. Io pensava quel che tu suoli volere. M’hai ritornato l’animo: lasciami respirare un poco. Ho preso tanta paura che non sará ben di me tutto oggi.

Balia. Cosí ti dispiacciono le donne, eh? che maggior piacer si può trovare che star con una donna bella come un agnolo?

Mastica. Se tu avessi detto «come un agnello», aresti detto assai meglio, che questo ti pone in corpo la sanitá, non ne la cava, né col tempo ti viene a noia. La donna piace per un poco, poi viene a fastidio; ma questo quanto piú invecchiamo piú ne piace. Lasciam questo: che cerchi da me?

Balia. Ho da farti un’ambasciata di Olimpia.

Mastica. Che fa?

Balia. Eh! che fa la povera martorella? piange e sospira sempre, né so come gli occhi possano supplire a tante lacrime e il petto a tanti sospiri. Io ho visto femine innamorate, ma non mai come questa. È venuta in odio a se stessa: volge gli occhi spaventosi di qua e di lá, ragiona sola fra se stessa come se vi fossero persone d’intorno. La notte non dorme mai: or si volge su questo or su quell’altro fianco come se il letto fusse d’ortiche o di spine, e se pur per stanchezza chiude gli occhi, si sveglia subito; non mangia né beve. ...

Mastica. Or questo sí che è cattivo e il peggior di tutti.

Balia. ... Sta attonita e sospesa d’animo, e quando vengono quelle ore nelle quali era solita star in conversazione in Salerno con Lampridio, tramortisce; e come torna in sé si straccia i capelli, grida e fa cose da spiritata: e ché la madre non la senta, si morde le labbra e le braccia. E sta tanto fitta su questi pensieri e s’affligge tanto amaramente che farebbe compassione alla crudeltade: par che d’ora in ora me la veggia morire in braccio. Coltello di questo core! ...

Mastica. Se tu mi avessi dato da bere t’aiuterei a piangere, ché gli occhi mi stanno cosí asciutti che se gli ponessi in un torchio non ne potresti cavar fuori una lacrima. Ma che vuol da me?