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atto primo 217


Martebellonio. Io so molto ben che la poverella si deve strugger per me, ché n’ho fatto strugger dell’altre. Ma io vorrei venir presto alle strette.

Leccardo. Ella desia che fusse stato; e se voi mi pascete ben questa sera, io vi recarò buone novelle e vi do la mia fede.

Martebellonio. Guardati, non mi toccar la mano, ché se venisse, stringendo te ne farei polvere, ché stringe piú d’una tanaglia.

Leccardo. Cancaro! bisogna star in cervello con voi!

Martebellonio. Quando mi porterai nuova che vada a giacer con lei, ti farò un pasto da re.

Leccardo. (Prima sarò morto che sia pesta la pasta per questo pasto!).

Martebellonio. Io ti farei mangiar meco; ma perché oggi è martedí, in onor del dio Marte non mangio altro che una insalatuccia di punte di pugnali, quattro ballotte di archibuggio in cambio d’ulive, due balle d’artigliaria in pezzi con la salsa, un piatto di gelatina di orecchie, nasi e labra di capitani e colonelli, spolverizzati sopra di limatura di ferro come caso grattuggiato.

Leccardo. Che sète struzzo che digerite quel ferro?

Martebellonio. Lo digerisco, e diventa acciaio.

Leccardo. Dovete tener l’appalto con i ferrari dell’acciaio che cacate.

Martebellonio. Andrò a consultar un duello e tornando mangiaremo: cosí ad un tempo sodisfarò alla mia fama e alla tua fame.

Leccardo. Giá si è partito il pecorone: se non fusse che alcuna volta mi fa far certe corpacciate stravaganti in casa sua, non potrei soffrir le sue bugie. Mangia la carne mezza cruda e sanguigna: e dice che cosí mangiano i giganti, e che vuole assuefarsi a mangiar carne umana e bersi il sangue de’ suoi nemici. Non arò contento se non gli fo qualche burla. Andrò in casa di don Flaminio che deve aspettarmi.