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286 la fantesca


Essandro. Avertite che sono nobile.

Gerasto. Se fussi di schiatta d’imperadori, non lascierei di far quello che m’ho proposto di fare.

Essandro. (Proverò fargli bravate, poiché col buono non posso ottener nulla). Gerasto, avèrti che la disperazione fa assai: tu non la passerai né mi offenderai senza vendetta.

Gerasto. A tuo dispetto, andrai di sotto, se ben fussi una Ancroia, una Marfisa bizarra.

Essandro. Son giovane, ho piú forza che non stimi: ancorché mi ponessi sotto, ho le braccia cosí robuste e la presa tanto gagliarda che ti romperò le reni e ti farò sputar l’anima.

Gerasto. Non potrai altro che farmi ingrossare il fiato e buttar fuori il sangue e l’anima.

Essandro. Poiché sei cosí bravo, perché non vieni meco da solo a solo? perché con queste genti?

Gerasto. Di questo ti assicuro, che il nostro duello sará da solo a solo. Non ho tolti questi per paura di te, ma per condurti qui dentro con manco rumore. Ma a solo a solo, all’oscuro e dentro un forno combatterò con te.

Essandro. Con che armi combatteremo?

Gerasto. Con l’ordinarie: tu con le tue, io con le mie.

Essandro. Lasciameti dir due parole.

Gerasto. Il meglio che potresti fare è tacere; e se pur sono svergognato in casa, non mi svergognar qui nella strada publica. Portatela dentro.

Essandro. Oimè!

Gerasto. Oh, come piange! non deve aver urinato questa mattina, ché le donne quando vogliono lacrime in abondanza per ingannare alcuno, la mattina non urinano. È vergine, la poveretta, e pensa che quel fatto sia qualche gran cosa, almeno d’andarne un mese zoppa; ma dopo ne será piú contenta che mai. Le vergini, se le richiedi, arrossiscono, e stimano la vergogna nelle parole, no ne’ fatti. Ma perché trattengo me stesso? O mia Fioretta, o mio giardino vergine, ecco che vengo a còrre cosí bel fiore.