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236 la fantesca


Panurgo. O Geraste, lepidum caput, voi siate il ben trovato! Cinthi fili, inchinati reverenter.

Gerasto. Questi è Cintio vostro figliuolo?

Panurgo. Ipse est e vostro famulo ancora.

Gerasto. Sii ben venuto, Cintio, figliuol mio.

Morfeo. Ben ritrovato, padre ca... ca... caro.

Gerasto. Come è cosí impedito della lingua, Narticoforo caro? come cosí sconcio della faccia? oimè, che puzza!

Panurgo. Ignoro per qual infausto numine gli venne nelle fauci un’angina e nella bocca quello apostèma, onde gli ha corrotto il fiato e toltogli la facoltá di poter ben alloquere.

Gerasto. Facciamogli tagliar quello apostèma, che qui in Napoli abbiamo valenti uomini che lo san fare.

Morfeo. Non è ma... matura, è acerba. Il vostro naso in... inco... inco... incomincia a sentir la puzza.

Gerasto. Strana infirmitá! come l’ha tutto trasformato!

Panurgo. Era il piú formoso giuvenculo che avesse la cittá di Roma, che da molte nobili matrone era chiesto in copula matrimoniale; e poi non so qual oculo maligno l’ave affascinato, overo discenso lunatico, e fatta la metamorfosi che vedete con intúito oculare.

Gerasto. In tanti anni che ho essercitato la medicina, non ho visto tal caso.

Panurgo. Il peggio è ch’è prerupto nelle parti inferne, gli è calata giú un’ernia intestinale, che non solo vi sono caduti dentro gli intestini, ma gli precordi ancora; onde l’ha fatto inabile ancora a poter fungere il munere uxorio.

Morfeo. A me è slongata cogli... cogli... cogli altri membri la borsa, e vi è dentro caduto il ca... ca... camino di urinare; onde non posso piú fu... fu... fuggire la morte.

Panurgo. Anzi l’ascosto è peggior del patente; ch’una certa egritudine, detta «lupa», gli ha devorato tutto il ventre, e in molti luoghi si veggono l’ossa denudate.

Gerasto. Mò che cosa vedo! Come l’avete voi condotto?

Panurgo. In un grabátulo, in vinti giorni; e da che vi si puose dentro, non l’abbiamo cavato se non adesso; e se gli si