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atto secondo 227


Morfeo. Camina, sgombra, fuggi, ché la tua presenza gli accresce rabbia.

Pelamatti. Se ho fatto errore, non mi manca la testa rotta. Orsú, ti lascio, ...

Morfeo. Che cosa?

Pelamatti. ... perché mi vo’ partire.

Morfeo. Mi pensavo che mi volessi lasciar qualche cosa: lascio io te.

Pelamatti. Non ho che lasciarvi se non miserie e povertá.

Panurgo. Non le voglio, portale teco.

Pelamatti. Voleva dir: ti lascio con bona ventura che ti aiuti.

Morfeo. N’hai tu piú bisogno di noi: che il maestro non ti rompa la testa, come s’accorgerá che sei stato burlato. Che ti par, so ben fingere?

Panurgo. Tanto bene che l’aresti dato ad intendere ad altra persona che non è lui. Oh, come ci ha giovato costui! Giá si può tener disfatto il matrimonio.

Morfeo. Andiamo a magnare, ché le vivande si guastano, e di qua ne sento la puzza.

Panurgo. Andiamo a travestirci, ch’Essandro ne deve aspettare.

SCENA VII.

Gerasto, Santina, Nepita.

Gerasto. (Questa mattina al far dell’alba ho fatto un sogno giocondissimo. Parevami che fussi divenuto un gatto rosso che avemo in casa, e stava innamorato d’una gatticella detta Bellina; e questa era guardata da una cagna rabbiosa. Parevami la cagna si partisse; la gattolina veniva a me, e mentre la facea miagolar come fussi mezzo gennaio, pareva che divenisse maschio come io. Ecco la cagna, la gatta fugge: cosí mi sveglio. Son stato strologando gran pezza che può significare, e l’interpreto cosí. Il gatto rosso son io, ch’ardo per Bellina, cioè Fioretta, guardata da una cagna rabbiosa — questa è mia moglie,