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atto terzo 145


Filigenio. Te ne ringrazio: fallo calar qui giú, che lo veggia.

Mangone. Filace, fa’ calar quello schiavo. Vedrete che non v’ho detto bugia: avanzará con la presenza quello che vi ho depinto con le parole. Ma avertite che non vi lascerò un quattrino di trecento scudi, perché val cinquecento, e vo’ che voi ne siate giudice.

Filigenio. Io non ne ho a comprar la bellezza di lui, il bel ragionare, il cantare e il ballare; ma vo’ che sia ben creato, gagliardo e che sappia servire.

Mangone. Eccolo, vedetelo bene, consideratelo; non vi ho chiesto soverchio.

Filigenio. Non è di cattiva apparenza.

SCENA VI.

Melitea travestita, Mangone, Filigenio.

Melitea. Caro signore, che mi comandate?

Mangone. L’aspetto solo non vale un tesoro? vedeste mai schiavo piú bello, di miglior garbo e di piú nobile apparenza? Non si vede in costui quel naso schiacciato, quelle labra grosse rivolte in fuori; sempre col riso su le labra, e per lo volto e per gli occhi fiorisce la sua allegrezza; anzi, quanto piú lo miri piú ti piace mirarlo: or se fusse bianco, che si potrebbe mirar cosa piú bella? e ti giuro che mi par ora piú bello che quando lo comprai poco anzi.

Filigenio. Hai ragione, è vero quanto dici.

Mangone. Avea fatto disegno, Amor mio, servirmi di te; ma poiché questo grand’uomo ti vuol comprare e so che ti fará carezze, ho stimato che sia meglio per te venderti a lui. Dimmi, lo servirai tu volentieri?

Melitea. Perché mi diceste prima che aveva a servir voi, mi era disposto servirvi con tutto l’animo. Ma poiché vi par meglio vendermi a questo gentiluomo, a me par ancor meglio, poiché quello che piace a voi, piace ancor a me. Le volontá de’ padroni son legge de’ servi: mi contento cosí ubbidirvi in ciò, come era disposto servirvi in ogni altra cosa.