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briga con lo scialbo bambino di sotto che tendeva anche lui gli stecchini delle sue braccia a scaldarsi alla fiammella del bicchiere.

Il pittore guardava e lasciava fare: del resto il quadretto non stava male, lassù; inoltre si sentiva venire dalla cucina un odore d’intingolo che profumava anche le considerazioni più melanconiche a proposito della dignitosa povertà degli artisti d’oggi, costretti, in certe città, come si legge sui giornali, a vendere i loro quadri in cambio di commestibili e combustibili.

Però, un certo senso di mistero si avvertiva intorno: e troppo intelligente era l’uomo per non accorgersi che il padrone aveva un fare strano. Infatti, quando l’operazione fu compiuta, egli riportò rapidamente la scala a posto, con un’aria ladresca; poi guardò di qua, di là, da ogni angolo dell’atrio, l’effetto del quadro; infine si scosse e parve non pensarci più. Allora condusse il pittore a vedere la vigna, il grano, il frutteto. Tutto era bello, ben tenuto; e gli uomini che vi lavoravano, illuminati dal sole al declino, avevano anch’essi luci e colori che entusiasmavano l’artista. Ma quello che più lo colpì, nella stalla levigata come un salone da ballo, fu un ciclopico toro rosso, feroce e bramoso, che pareva avesse il fuoco nelle viscere e, oltre le belle figure mito-