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Venezia. Era quasi mezzogiorno; la folla prendeva d’assalto i tram: una fiumana di gente, composta per lo più di signore eleganti, veniva giù da via Nazionale, spandevasi per la piazza, risaliva per il Corso: un rombo confuso, di tram, di automobili, di carrozze, di voci, risuonava per l’aria sempre umida, ma inondata da una viva luminosità. Regina sentiva una specie di vertigine; ella, che vedeva poco da lontano, cominciò a veder confusamente anche da vicino, stordita sopratutto da quel rombo incessante fatto di mille rumori, fra i quali il mugolìo degli automobili le sembrava l’urlo di belve in fuga e le dava quasi una sensazione di terrore.

Ella fissava gli occhi spalancati sulla piazza, affascinata dal via-vai della folla come dall’ondeggiamento d’un fiume: poi guardava in alto, e le pareva che la rete dei fili telefonici velasse il cielo attraversato da nuvole lucenti. Tuttavia, se ella si sentiva stanca ed oppressa, credeva di non essere meravigliata. L’eleganza delle donne la colpiva sopra ogni cosa; ella ne provava invidia e nello stesso tempo disgusto. Era impossibile che esistessero tante donne così ben fatte e così belle: dovevano essere imbottite e tinte. Oh, ella lo sapeva bene, ella sapeva quanta corruzione, quanta falsità, quanta miseria occulta portava con se quella folla il cui primo contatto, in quell’incerto mattino autunnale, sotto la rete dei fili metallici, le destava un misterioso sentimento d’avversione e di compassione.

— Montiamo in carrozza, — propose Antonio, che vedeva una stanchezza sempre più grave disegnarsi sul viso di sua moglie.