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la casa paterna 147


Lì seguì un lungo sermone sull’ozio, che io ascoltai con la faccia china, ardente di vergogna.

Non vorrete crederlo, eppure vi assicuro che da quel giorno, per tre mesi almeno... non gettai sullo specchio che qualche sguardo fuggitivo e feci un’infinità di calze e di cuffiette da notte magnificamente guarnite con merletti pure eseguiti da me.

Sparita è pure la larga tenda della finestra, di percalle rasato, a figurine chinesi, dietro la quale mi compiacevo di stare, allorché non avevo compagnie di visite, nei crepuscoli estivi — perché quella finestra aveva più di tutte un largo spazio di case e di vie adiacenti innanzi a sé — fantasticando al mio solito, immersa in un mondo sì diverso e lontano dal vero, gli occhi fissi sul cielo di smeraldo e di viola, l’anima cullata dalla melanconica musica di un organetto che un nostro vicino suonava eternamente appena vedeva stendersi sul cielo le prime tinte della sera.

Nessuno passava nella nostra via eccetto i giorni di feste solenni nei quali sfilavano, davanti alle nostre finestre, le processioni di ritorno alla cattedrale, poco distante da noi; ma i bimbi dei nostri vicini giocavano sempre nella via, e quando io non potevo assolutamente unirmi a loro, irrequieta e birichina qual ero, salivo alla camera della mamma, mi affacciavo alla sua finestra e fantasticavo —