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mento d’una fisarmonica vibrava tra i mirteti della brughiera, e la zia portava in mano la lettera dello zio Asquer.... Ed era ancora tale e quale, la vecchia: lo stesso viso ieratico circondato dalla benda nera, lo stesso sguardo fisso, misterioso, lo stesso passo di piedi scalzi che non fan rumore. Dava l’idea d’una di quelle fate messaggere della buona o della mala sorte.

— È la risposta del notaio, — disse Lia, dopo aver letto il telegramma, — è vivo, non è scappato, è pronto a consegnare i danari, — aggiunse, sollevando gli occhi e sorridendo con lieve ironia. Le labbra però le tremavano.

Come in quella sera lontana, la vecchia si lasciò cadere sul sedile di pietra e domandò:

— E adesso che cosa farai?

— Adesso? Adesso non ho più bisogno di far nulla!...

— Ritornerai a Roma?

— No.

— Come, non ti basta neanche tutta quella ricchezza?

— Non basta, zia!

— Ma che cosa si mangia, a Roma? Oro?

— Molti, sì, mangiano oro.

La vecchia ricominciò a brontolare; poi diventò pensierosa:

— Riprenderai marito, Lia?

— No, no! Io non penso che ai miei ragazzi, zia! Vivrò per loro: per il resto del mon-