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irritato. — Per quest’estate ella andrà nella casina delle glicine: o ha paura di me? Venga qui; mi lasci parlare. Di che ha paura?

Lia era diventata pallidissima: l’amore e l’orgoglio scintillavano nei suoi occhi.

— Ma di che cosa? Non capisco.

— Lei capisce benissimo, invece! Ma è cattiva.... perchè? Perchè sempre così cupa, così inutilmente fiera? Cattiva, sì, con me, coi suoi bambini, con sè stessa. Che crede ch’io non la veda? Lei è malata, deperisce e si uccide, sì, sì; non se ne accorge che si uccide? È questo il suo dovere?

— Qual è il dovere?

— Vivere, Lia! Vivere e amare.

— Ho vissuto e amato: adesso basta.

— Adesso basta? Perchè? Vada, vada, — egli gridò, sollevandosi sul gomito, — curi la sua salute, vada fuori di Roma. La casina è a sua disposizione fin da oggi: le ripeto, se vuole io non ci passerò neppure; se vuole posso andar via di qui: tutto, purchè non la veda soffrire!

Allora Lia s’appoggiò ai piedi del letto: tremava di nuovo, come quella sera alla finestra, ma d’un diverso turbamento. Non aveva più paura; le sembrava che se anche avesse appoggiato la testa sul petto di lui, egli non le avrebbe fatto che del bene.

— Lei è buono.... — mormorò.

— Non è vero! Se lo fossi, riuscirei a farmi