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Arrivò alle falde del Monte ch’era notte fatta: il cielo tremolava tutto di stelle come una immensa rete d’oro, e l’Orsa Maggiore bassa sull’orizzonte gli serviva di guida come un carro che lo precedesse per la china solitaria. Del resto egli conosceva bene quei luoghi, e ne ritrovava anche al buio i sentieri più nascosti. A lunghi passi costeggiò il fianco del monte, distinguendo al lume delle stelle i muri e le roccie, gli alberi e le macchie, e le distese d’erba d’un nero lievemente argenteo. In lontananza, nel vuoto vaporoso dello spazio i lumi degli stazzi parevano stelle rossastre ancora basse sull’orizzonte; e negli ovili qua e là qualche fuoco brillava illuminando con la sua macchia di chiarore un profilo di capanna o un albero in uno spiazzo erboso.

Egli andava, e solo il suo passo e il rotolare di qualche sassolino risuonavano nella solitudine. Ma ecco le roccie s’alzano a picco, pareti enormi nude e lisce in certi punti così levigate che riflettono il chiarore delle stelle e delle luci lontane; e teste scapigliate coi lunghi capelli spioventi s’affacciano in alto a spiare il passante. E una voce d’acqua mormora nella notte, così chiara e fresca che pare di vederne il nastro cristallino rimbalzare e infrangersi di roccia in roccia.

Nell’inoltrarsi per quella strada che solo i pastori e i cacciatori conoscevano, Mikali ascoltava la voce dell’acqua e aveva l’impressione che le pareti di roccia si restringessero sopra di lui, gli gravassero addosso: ne sentiva il freddo