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Attraversato l’ingresso il cui tetto d’embrici era già sfondato, Andrea andò ad una delle tre finestruole del refettorio, ultimo rifugio del frate. Era una stanza lunga ed umida, col pavimento rotto, e due panche di qua e di là del vecchio tavolo; ma dalle finestre si godeva l’immensità del paesaggio, chiuso a sinistra dalle linee luminose del Gennargentu, e a destra da Monte Acuto e da Montalbo, simile questo ad una nave azzurra sull’orizzonte violaceo. Le vallate che scendono di lassù e risalgono fino ai monti di Nuoro e all’altipiano di Orune, dànno a guardarle un senso dolce di vertigine come abissi coperti da un velo cerulo; qua e là il velo è macchiato dal nero dei boschi, dal grigio delle roccie, increspato dal filo argenteo dei ruscelli e delle strade provinciali, venato dalle muriccie di pietra che segnano i confini delle tancas; ma in lontananza si spiega libero e va a confondersi col cielo.

— Bello, vero? — disse timido il frate. — Adesso poi, quando l’erba s’indora e la luce diventa più calda, tutto è più bello. E di notte, con gli usignuoli e con Giove bellissimo lassù! Bello! Bello!

Andrea non parlava, aggrappato nervosamente alla finestruola: ma al frate pareva di vedere come in una boccia di cristallo quello che si agitava dentro quella testa cupa e ferma; e aveva paura a cominciare il discorso.

Parlare però bisognava: che dire, se non cose inutili?

— Sì, per molto tempo ho sperato e, perchè