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to, e il dottore dimenticò gli altri suoi ammalati, — che curava più per abitudine e per carità che per altro, — finchè la ragazzina, come egli la chiamava, non guarì bene.

Per darle più attenzione durante la convalescenza, la volle a tavola con sè, e cominciò a prodigarle mille piccole cure; di cui ella si spaventava.

La malattia l’aveva resa espansiva e affettuosa; non voleva che zio Evéno si disturbasse nulla nulla per lei, e le sue premure l’imbarazzavano. Una sera egli, guardandola fissamente, le chiese:

— Vorresti andare a casa tua?

Essa pensò un poco, e poi disse:

— Sì, avrei desiderio di vedere mamma.

— E non altri?

— E Elena. — Era la sorellina.

— E non altri?

— E chi?.. — domandò, esitando ed arrossendo. Don Evéno vide il suo turbamento, e corrugò la fronte. Disse, freddo:

— Fino a due mesi fa so che vi siete corrisposti. Che pensi ora!

— Io? Nulla... — balbettò Mikela, chinando gli occhi e la testa.

Don Evéno vide le lunghe palpebre della fanciulla sbattere rapidamente e si accorse