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ozio 109


quilla, la interessavano, la divertivano. I facchini del porto, seminudi, coi calzoni turchini, il dorso rosso, il petto sviluppato come quello delle donne; gli scaricatori di carbone, neri come abissini, i marinai e i pescatori che parevano fatti dello stesso legno scuro dei loro barconi, tutta quella gente che parlava un linguaggio quasi incomprensibile, rozzo e privo d’armonia, le pareva appartenesse ad una razza inferiore, quasi bestiale, ma la interessava appunto per questo. Ella ammirava tutto ciò che era pittoresco. Era un’artista, ma una di quelle artiste infeconde che non sanno o non vogliono coltivare il loro divino istinto. Ella aveva sognato, qualche volta aveva anche tentato di mettersi a lavorare; ma il lavoro le sembrava un tormento o, peggio ancora, una volgarità. Ella avrebbe voluto produrre senza sforzo. Eppoi, senza esser ricca, non aveva bisogno di lavorare. Conosceva quindi tutti i vizi morali dell’ozio, e li praticava senza scrupoli, avida di godere l’attimo fuggente. Nei primi giorni dopo il suo arrivo ella ammirò, con vivo piacere, — piacere, del resto, puro e freddo come quasi tutti i godimenti intellettuali, — alcune belle figure d’uomini, che si distinguevano tra la piccola folla brutta dei pescatori e dei facchini. Il primo fu appunto un facchino, un tipo di bellezza e di forza ammirabili; un altro fu una guardia doganale, d’una bellezza femminea. Ma la guardia non vedeva che i velieri e le barche in arrivo, e il facchino, sotto il peso dei sacchi di grano che curvavano il suo dorso nudo, non badava che al