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— Ah, eccola! — disse l’altro, subito dopo.

Il giovinotto si volse, sorridendo beffardo, pronto a dir qualche parola piccante alla giovane alta e sottile che usciva di chiesa in quel momento. Ella aveva una chiave in mano. Era vestita quasi tutta di nero, col corpetto chiuso; il suo viso bianco, dal profilo purissimo, era così triste, che il giovinotto non osò tirar fuori le sue parole piccanti. Solo disse:

— Il padrone ti aspetta da un’ora!

Oja si mise a correre, agitando la chiave. E Juanne, prima di svoltare dietro la chiesa, vide ziu Pascale calmarsi e salutare la serva.

Nel pomeriggio il giovinotto andò a picchiare alla porta del Sotgiu. Il viso pallido di Oja apparve alla finestra, fra due vasi di basilico. Vedendo Juanne ella corrugò le alte sopracciglia nere e disse che il padrone era ripartito.

— È andato all’ovile e non tornerà fino alla vigilia di San Giovanni.

Egli guardava in su, tenendosi con una mano la berretta ferma sulla nuca. Egli vedeva i bellissimi denti di Oja, i bellissimi occhi neri, e gli veniva il desiderio felino di arrampicarsi sul muro come un gatto.

— Oja, occhi di stella! Aprimi la porta! Di che paese sei? Voglio dirti…

Ma Oja chiuse la finestra con dispetto. Egli si volse e vide che i due vecchioni, seduti sotto l’olmo, lo guardavano e ridevano. Egli s’avvicinò e disse: