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mostro di felicità e di angoscia gli frugava il cuore. La felicità però, se felicità poteva dirsi, non andava mai separata da un senso d’angoscia, mentre nei momenti, ed erano i più, nei quali il dolore del delitto commesso vinceva, nulla valeva a raddolcirlo.

La parte buona e credente dell’anima di Elias si ridestava tutta d’un tratto, in quell’alba quaresimale triste e minacciosa, e si smarriva e si atterriva davanti alla realtà del fatto compiuto.

“Non e vero, è stato un sogno„, egli pensava, stringendo la briglia con le dita aggranchite dal terrore. “Un sogno. Oh che non ho sognato in riva all’Isalle, e nella tanca, quante volte? Ma no, no, no! che dici a te stesso, Elias Portolu! miserabile, sei pazzo, il più vile, il più abietto degli uomini.„

Ma mentre così si rimproverava ricadeva nel ricordo, e tutte le sue membra trasalivano di piacere e il viso si rischiarava; poi ridiventava più inquieto di prima, un’onda di vergogna o di rimorso gli penetrava per ogni vena; e di nuovo il terrore e impeti folli di percuotersi, di schiaffeggiarsi, di mordersi i pugni lo assalivano come cani arrabbiati.

Allora ricominciavano gl’improperi.