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— Lo farei a pezzi, — pensava, digrignando i denti, — e poi mi leccherei il sangue dal coltello.

Infine pareva che una bestia feroce s’agitasse entro quel giovine pallido, dall’apparenza mite, che spesso si vedeva seduto sul limitare della capanna, a gambe aperte, coi gomiti sulle ginocchia, immerso nella lettura di libricciuoli sacri.

Intanto veniva il freddo, l’immensa tristezza dell’inverno nella solitudine; e la costituzione malandata di Elias se ne risentiva profondamente. I lunghi giorni di pioggia, di neve e di strapazzi — giacchè è nell’inverno che il pastore sardo, il cui gregge e lui stesso vivono senza riparo, lavora e soffre di più — il disagio della capanna sempre piena di fumo e di vento, la lotta contro gli elementi, finirono con l’esaurire le forze fisiche e morali di Elias.

In quel tempo, durante certe nevicate che facevano morire assiderate le pecore, ritornò al giovine l’idea di farsi prete. Ma come diversa da prima! Nell’aspra lotta contro gli elementi e contro sè stesso, si disperava più che mai, sentiva un ribelle desiderio di vita comoda, un bisogno di tregua, e vedeva il suo unico scampo nel cambiare stato.