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apparenza, così travagliata in realtà. Beppa era allora assai fanciulla: era intelligentissima anche lei, spregiudicata, allegra e lingua lunga. Trovava il lato ridicolo di tutti, cominciando da Cosima, e i suoi giudizi sul prossimo erano spietati. La madre le rinfacciava di averle tagliato il filo della lingua. Ma era bella, bianca, i capelli d’un castaneo dorato e gli occhi azzurri. Dava l’impressione di un fascio di fiori: rose e gigli, fioralisi e narcisi. E aveva spasimanti più che Cosima: tutti però alla larga, sempre per la triste ragione dei fratelli.

Quell’inverno però le capitò un adoratore più serio degli altri. Era niente meno che il direttore della Scuola Normale, pezzo grosso per la piccola città; un bell’uomo alto, roseo, già un po’ calvo ma ancora possente, con una parlantina che incantava anche i più imperterriti attaccabottoni del luogo. Organizzava poi feste da ballo, rappresentazioni, concerti e conferenze, per divertire e istruire i suoi giovani allievi, che lo adoravano. In una di queste riunioni vide Beppa, che vi era andata per un caso straordinario con la madre di uno degli studenti, e ne rimase colpito. Era un tipo diverso dalle altre ragazze del luogo: quasi sembrava della razza di lui, e forse fu questa specie di affinità che lo attirò. D’un colpo, con una facilità che rasentava la leggerezza, strana in un personaggio che rappresentava l’educatore, il guidatore dei futuri maestri di scuola, dichiarò a Beppa il suo amore e le chiese