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va aveva portato nel piatto; ma io la respingevo con un senso di ripugnanza.

Le nozze di Banna furono celebrate a Pasqua. Io ero ritornato per qualche giorno in paese e fui invitato; per tre giorni le tavole rimasero apparecchiate e mentre zio Remundu presiedeva seduto in capo alla mensa fra due boccali di vino lo sposo andava su e giù per la casa e aiutava a sgozzare le pecore e i capretti destinati al banchetto.

Nel cortile si ballava al motivo di un canto corale. Le donne e gli uomini con le dita intrecciate saltellavano seri e quasi tragici intorno al gruppo dei cantori che riuniti viso contro viso con le mani sulle guancie pareva si comunicassero un segreto. Sotto il portico ove si sgozzavano i capretti e si scorticavano le pecore, la scena aveva alcunchè di rituale, simile ad un sacrifizio accompagnato da canti e danze in onore degli sposi. Anch’io ballai, e Columba mi diede la sua mano gracile che a poco a poco io sentii scaldarsi e quasi gonfiarsi entro la mia come un uccellino assiderato che riprende vita e calore.

La sera del terzo giorno si ballava ancora. Io rimasi a cena; le tovaglie erano macchiate di vino, di sangue e di miele, tutta la casa esalava un odore di bruciaticcio e di liquori ed era piena di dolciumi, di frumento regalato alla sposa, di mazzolini di fiori, di bioccoli di lana e di carne fresca. Un disordine indescrivibile regnava in tutte le camere e la gente vi passava come in un luogo pubblico; nel cortile i cantori proseguivano la loro cantilena sonora, e i ballerini danzavano emettendo gridi sonori.

Sembrava un’orgia, una festa bacchica illuminata fantasticamente dai fuochi di lentischio che ardevano nel cortile e dalla luna che calava rosea sul cielo di primavera.