Pagina:Deledda - Colombi e sparvieri, Milano, 1912.djvu/38


— 28 —

a poco a poco tutto fu buio: il cielo s’oscurava e il vento, calmatosi alquanto dopo il tramonto, riprendeva a sibilare con più forza; qualcuno si mosse nella stanza superiore e mentre dal soffitto cadeva sul malato una pioggia di polvere, di fuliggine e di calcinacci, una nenia funebre scese di lassù attraverso le aperture delle assi come da un luogo lugubre lontano.

Egli si coprì la testa col lenzuolo rabbrividendo. Gli pareva che sul suo capo un essere malefico cantasse per lui fra i sibili del vento le preghiere dei morti: i ricordi lontani della sua triste infanzia gli tornarono in mente, la tetra figura della matrigna passò e ripassò nello sfondo scuro della stamberga.

L’arrivo del servetto lo rianimò.

— Fra poco viene il dottore. L’ho incontrato che trottava col suo bastone e lo batteva sulle pietre: sogghignava come un diavolo e mi domandò: «Non è ancora morto il tuo padrone? Ebbe’, la visita del prete non lo ha ammazzato?» Io gli risposi: «Non so neppure se il prete sia venuto; spero di sì, perchè volevo chiedergli un sonetto». E lui disse sogghignando: «Ah, sì, un sonetto? e perchè non ti suoni la pelle della pancia, tanto è vuota?» E io replicai: «Se la suoni lei! »

— Accendi il lume. La senti? — gli disse Giorgio senza badare alle sue chiacchiere, tendendo l’orecchio alla nenia funebre che s’era fatta lieve e sottile come uno zufolio.

Pretu sollevò il viso verso il soffitto.

— È proprio qui sopra! Sì, adesso vado a guardare: deve essere la vostra matrigna che canta così per dirvi che state per morire.

— No, lasciala in pace; altrimenti fa peggio. Il servetto diventò pallido e si fece il segno della croce.