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238 la festa del cristo


Era ai primi di maggio, ma sembrò si ritornasse nel cuore dell’inverno.

Soffiava il vento di tramontana e tutti i monti intorno dalla cima di Siddò alle tre punte di Gonare, da Monte Arbo all’alpe di Ollollai, parvero sciogliersi in nuvole color di pietra. Se il sole riusciva un momento a brillare simile a una brage in mezzo alla cenere, i peri selvatici fioriti lungo il sentiero tremavano come di gioia: poi tutto tornava livido e minaccioso. Sulle chine verdi lontane si vedevano come nuvole bianche correre e sciogliersi: erano greggie che fuggivan spaurite. Per ripararsi dal temporale i pellegrini si fermarono a Orotelli: furono ospitati qua e là e una comare di battesimo del parroco Filìa, una ricca paesana che aveva due figli maschi valentuomini, corse per invitare a casa sua il vecchio prete, Istevene, altri del seguito, e volle ospitare anche lo stendardo che sgocciolava acqua rossa simile a sangue.

La pioggia scrosciava sul paese, il vento ululava; ma in casa della comare del prete si stava bene. A questi fu assegnata la stessa camera nuziale della vedova, e lo stendardo fu appoggiato come una grande ala umida contro le spalle di un San Costantino di legno tarlato.

Fuori nel cortile, fra lo scrosciar della pioggia, il puledro rosso scalpitava talmente che lo stesso Istevene cominciò a impressionarsi.

Seduto con gli altri uomini intorno al focolare, mentre le donne curve sul pajuolo nero