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tornare laggiù. Viveva con le poche lire guadagnate dalla senseria del vino acquistato per conto del Milese, ma non sapeva che avrebbe fatto poi: anche lui guardava lontano, dal finestrino della sua stanzetta sopra un cortiletto in pendìo in fondo al quale come da un buco si vedeva la grande vallata d’Isporosile con la cattedrale di Nuoro fra due ciglioni, in alto, sul cielo venato di rosa.

Ma neppure a Nuoro si decideva ad andare: provava un senso di attesa, di qualche cosa che ancora doveva succedere, — e intanto girovagava per il paese, si ubbriacava di sole davanti alla porta della chiesa. Il villaggio bianco sotto i monti azzurri e chiari come fatti di marmo e d’aria, ardeva come una cava di calce: ma ogni tanto una marea di vento lo rinfrescava e i noci e i peschi negli orti mormoravano tra il fruscìo dell’acqua e degli uccelli.

Giacinto guardava le donne che andavano a messa, composte, rigide, coi visi quadrati, pallidi nella cornice dei capelli lucenti come raso nero, i malleoli nudi di cerbiatta, le belle scarpette fiorite: sedute sul pavimento della chiesa, coi corsetti rossi, quasi del tutto coperte dai fazzoletti ricamati, davano l’idea di un campo di fiori. E tutta la chiesa era piena di nastri e di idoli; santi piccoli e neri con gli occhi di perla, santi grossi e deformi, più mostri che idoli.