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sotto il Castello. Dammele, che te le farò fruttare.
Kallina gliele diede; solo ne tenne una col buco e se la mise al collo infilata ad un coreggiuolo rosso.
— Andate, — disse alla donna. — Salvate un’anima. Voi fingete di non crederci perchè io tenga il segreto. Ma lo terrò lo stesso.
E cadde a terra come morta.
La levatrice si ostinò finchè visse a dire ch’era stata un’illusione della febbre; ma si sa, ella diceva questo perchè Kallina tenesse il segreto.
Le monete intanto fruttavano: fruttavano tutti gli anni sempre più come i melograni che ella vedeva laggiù verdi e rossi intorno al cortile di don Predu Pintor.
Una sera poi aveva provato, vecchia com’era, la stessa impressione di gioia e di terrore di quella volta. Un giovane signore le era apparso, tale e quale il Barone. Era Giacinto.
E ogni volta che lo vedeva, si rinnovava in lei quel senso di vertigine, il ricordo confuso d’una vita anteriore, antica e sotterranea come quella dei Baroni nel Castello.
Eccolo che viene. Alto, nero, col viso bianco alla luna, entra, siede accanto a lei sulla soglia.
— Zia Kallina, — disse con voce straniera, — perchè avete raccontato i miei affari al servo?