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xi. 1819 - gl’idillii 107

senza dolore, senza speranza e senza disperazione: uno stato d’immobilità, che è di persona viva e ha tutta l’apparenza della morte:

                              e già mi par che sciolte
Giaccian le membra mie, né spirto o senso
Più le commova.

Questo è lo stato che chiama ferreo sopore, uno stato assolutamente prosaico e incapace di rappresentazione; è l’uomo petrificato o cristallizzato, il ghiacciato di Dante.

Ma la vita solitaria lontana dalla città, in mezzo a’ campi, risveglia l’anima e le ridona il senso della vita, e il piangere e il sospirare e il ricordarsi. Questo risveglio non è un risorgimento, è un sollievo temporaneo accompagnato con un ahi!:

                              a palpitar si move
Questo mio cor di sasso: ahi, ma ritorna
Tosto al ferreo sopor.

Perciò la vita non torna se non come memoria, non ciò che fu.

Ma la memoria opera nell’uomo come fosse realtà, anzi è realtà anch’essa, e lo rifà vivo, vivo nel passato che ha la forza di rappresentarsi; e gli ritorna l’ispirazione, il sentimento della bella natura, il desiderio o il sospiro del passato, il dolore di averlo perduto e la voluttà di quel dolore che pure è vita. Ne nasce quella mescolanza di piacere e di dolore, di vita e di morte, di sereno e di fosco, che è il carattere della poesia leopardiana. La solitudine è un tema vecchio d’idillio, espresso per lo più in generalità vaghe e insipide, e che qui acquista un nuovo senso, perché calato in tutti gli accidenti della persona. Non è la vita solitaria, ma è la vita solitaria di Leopardi. Perciò tutto vi è particolare e personale.

Sono in questa poesia alcune descrizioni bellissime, com’è la pioggia mattutina, e la quiete altissima della natura al meriggio, e la felicità della vita giovanile. Quei paesaggi così freschi di colorito, così semplici e precisi di disegno, generano quella pacata impressione idillica, ch’è propria della vita campestre.