Pagina:De Roberto - Al rombo del cannone, Milano, Treves, 1919.djvu/37


maria carolina di napoli 25


tranno effettuarsi «se non quando la nostra esistenza sarà dimenticata». Di tradurre in realtà la visione, di fare almeno qualche tentativo, di scernere se non altro la via per la quale ci si potrà arrivare, ella non possiede la capacità. Si contenta di pensare che se Gustavo di Svezia o Giuseppe II vivessero ancora, direbbe loro: «Osate, affezionatevi l’esercito, i baroni ricchi e potenti, lanciate ai popoli nobili manifesti, parlate il linguaggio dell’intelligenza, dell’amor proprio, guadagnatevi i cuori e procurate con ogni mezzo di divenire Re d’Italia....»; ma quei sovrani sono morti e sepolti, e non avendo «nè l’energia, nè la potenza, nè il carattere, nè la perseveranza, nè i mezzi loro, bisogna piegare sotto il giogo....» L’amore di sè soffre, assicura - e non è difficile crederla! - «nel fare questa confessione che mi è costata molte lagrime»; ma la sincerità non ritorna, come non tornano i lampi della verità; torna invece la presunzione, ricominciano le smanie, le manie, le insanie, l’impossibilità di accettare le lezioni della vita, di sottostare alle leggi della realtà.

Da Palermo, dove si è rifugiata, giudica preferibile «entrare in un monastero piuttosto che vedermi insultata nei miei Stati»; ma poi l’idea di vivere da semplice privata in Germania le riesce intollerabile «per punto d’onore»; ed a Vienna, dove si ritrova «Regina di nome e cittadina di fatto», dove la resistenza alla