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Quattro ore sonarono nel fitto dell’oscurità, ore gravi, cupe, solenni come quattro parole piene di minaccia, che fecero sul capo dell’infelice l’effetto di spietate martellate.

Il Pianelli capì che era l’ora di tornare a casa e, tra il chiaro e il fosco de’ suoi pensieri in disordine, ritornò sul ponte, e, col passo frettoloso di chi ha paura di perdere un treno, risalì di nuovo tutto il Corso, ritraversò piazza del Duomo, alzò gli occhi alle finestre illuminate del Club, dove si ballava ancora: scese per via Torino, passò davanti San Giorgio, senza vedere, senza udire i pochi matti che strillavano e barcollavano vestiti da maschera: passò imperterrito quasi sui piedi di due questurini accovacciati nel rientro di una porta, e venne fino in Carrobio, non so se cacciato o se tirato da un ultimo pensiero, soltanto in questo vivo, morto indurito nel resto della sensazione, fatta ancora più rigida dai sudori dell’ebbrezza alcoolica, che gli si congelavano indosso.

Trasse dal taschino la chiavetta inglese, aprì il portello, entrò nell’andito della casa sua, rintracciò nel buio la solita strada, la solita scala, che prese a salire energicamente col corpo più sveglio, ritrovando nelle svolte dei pianerottoli le idee abituali di tutte le sere.

Abitava al terzo piano un quartierino quasi nuovo, che aveva due balconi verso strada.