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al vivo movimento della città, che copre col suo frastuono le piccole e le grandi tragedie degli uomini.

Arabella l’accompagnava in silenzio. Il cuore della fanciulla, ancora pieno delle brutte visioni della notte, non pigliava parte alla vita esteriore della città, che essa traversò come un’ombra sdegnosa e corrucciata. Il matrimonio della mamma, quel dover accettare, tacendo, un destino così contrario alle sue previsioni, e, oltre a questo, un senso confuso, dirò così, di gelosia che nasceva in lei col pensiero del suo povero papà, misto a un altro senso di ripugnanza e di antipatia per un uomo che doveva benedire come un benefattore, tutto ciò la rendeva triste d’una malinconia taciturna e irritata, che rendeva alla sua volta taciturna e irritata la mamma. Non si scambiarono quattro parole, cammin facendo: e tra una parola e l’altra ciascuna filò una fitta matassa di pensieri, che si attaccavano al passato e all’avvenire, ai vivi e ai morti, che sono la storia sacra dell’anima nostra. Una volta sola la ragazza uscì a dire improvvisamente, come conclusione di una riflessione compiutasi nella sua testa:

— Di’, mamma, se tu sposi il signor Paolino, non potrei io restare collo zio Demetrio?

La mamma non rispose nulla, ma di lì a un poco le si gonfiarono di lagrime gli occhi.