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Dopo aver gironzolato un quarto d’ora, fermandosi davanti alle belle botteghe senza veder nulla al di là dei vetri, uscì con un fare di indifferente dal braccio destro che mette verso San Raffaello, sempre agitato dal suo segreto spasimo: cercò cogli occhi la casa che sorgeva ove adesso sorge un palazzo, e quasi acciecato da una passione vergognosa, infilò una porticina, vide a piedi di una scaluccia un cartello con sotto una mano, seguì quella mano coll’indice teso per tre o quattro pianerottoli, tra due pareti giallastre scrostate dall’umido e dal nitro, si fermò sopra un pianetto semibuio, pregno d’un acre odore di minestra, davanti a un uscio mezzo di legno e mezzo di vetro riparato da una tenda di cotone, che il venticello fresco delle camere interne sollevava di tempo in tempo.

Qui posò leggermente la mano sul cordone e dietro il morto tintinnìo d’un campanello di latta, sentì una voce maschia e profonda che diceva:

— I miei coturni, smorfia.

Di lì a un poco l’uscio si aprì e comparve un uomo di mezza statura, tarchiato, con un barbone nero, colla zucca rasa e lucida nel mezzo come un mappamondo, che s’inchinò gravemente e disse con voce di basso profondo:

— Servitor suo.