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partenza e ritorno. 405

come suol dirsi, per impedirti di venir qua, chè certo ci saresti venuta. E adesso va’ in collera, grida, scrivi, protesta; la è tutt’una; è finito; bisogna rassegnarsi. Anzi, fa’ a modo mio, cara madre; ringrazia il cielo che non sia stata che febbre; pensa a questi poveri giovani che ho intorno, chi ferito di palla, chi di baionetta, condannati al letto chi sa per quanti altri mesi, e fortunati quelli che s’alzeranno ancora. Ho davanti a me un luogotenente dei granatieri, lombardo, che s’è preso una baionettata nel petto, a Custoza, da un sergente dei croati, e ferito com’era non s’è voluto allontanare dal campo. M’ha fatto veder la sua tunica; è ancor tutta macchiata di sangue. È quasi guarito, si leva, cammina; ma quando si sveglia, nell’atto che fa per mettersi a sedere sul letto, prova ancora dei dolori atrocissimi. Mi raccontò il fatto. — Mi ricordo di poco, — mi disse; — mi ricordo come di un sogno, d’aver veduto quattro o cinque ceffi orrendamente stravolti correre contro di noi mandando un urlo prolungato, e uno di essi mi guardava. Ho sempre presenti quei due occhi spalancati e la punta di quella baionetta; era un uomo alto, nero, con due gran baffi. In che modo sia riuscito a ferirmi non mi sovvengo. Ricordo che mi passò dinanzi, rotando la sciabola, un ufficiale austriaco senza barba, un viso femmineo, giovanissimo, che gridava disperatamente: — Jesus Mària! Jesus Mària! — Passò e scomparve. Quello lì lo vedo sempre, lo riconoscerei. Parecchi giorni dopo, essendo all’ospedale colla febbre e il delirio, mi sentivo ancora l’orecchio intronato da quegli urli e dal suono dei fucili cozzanti, e vedevo lontano lontano una punta scintillante che veniva innanzi, nella direzione del mio cuore, lentamente, lentamente, come se mi guardasse per riconoscermi; e me la sentivo entrar poi tutt’ad un tratto nelle carni, dura, fredda,