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Il cielo scuro, il Rovese con la sua cupa voce collerica parevano consci di un futuro sinistro. Gran colpi d’aria passavano alti sul capo di Cortis e di sua cugina che non sapevano staccarsi da quell’asilo quieto dove il vento taceva sì che vi si udiva il sugger lieve della ghiaia bagnata di fresco, dopo una lunga aridità.

«Pensa a me, qualche volta» disse Cortis, sotto voce.

Elena non gli rispose. Si avviarono lentamente verso casa; ella con il volto chino e le labbra serrate, egli parlando sempre a scatti, con inquietudine febbrile.

«Lo so» disse «lo so che sei una buona amica. È una brutalità stupida ch’io ti dica di non dimenticarmi. Sai cosa mi sento invece qui nel cuore, di doverti dire? Che forse sarebbe bene, per te, dimenticarmi. Che addio ti faccio, Elena! Ma forse in un altro momento non avrei la forza di dirtelo. La mia vita diventa una battaglia, vedi. Non so ancora quando, ma presto. Non posso perder tempo perchè il mio posto è avanti, molto avanti, e dovrò battermi giorno e notte per arrivarvi. Tu conosci le mie idee; sai se lascerò del sangue sulla via! No, no, non mette conto di legarsi a me; non c’è che da soffrire. È meglio lasciarmi solo, Elena.

«Questo?» diss’ella alzando il viso.

La baronessa, quand’era con Daniele Cortis, diventava umile e timida come nessuno l’aveva veduta mai, neppure da bambina; ma ora tutta la sua naturale alterezza le lampeggiava in fronte. Cortis aveva parlato con la coscienza di una energia superiore e si sentiva subitamente in faccia un’eguale, statagli