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rimanendomene sette pel mio pane quotidiano. Ebbi la costanza di cibarmi, per quarantadue giorni continui, di pane e di certe olive nericce, che, per essere salate, mi fortificavano l’appetito di bere dell’acqua, celando, non che agli altri, al fratello mio la dura necessitá della mia piú che poetica parsimonia. Terminò questa fortuitamente per un fatterello bizzarro.

Un giovanotto, che aveva gran pretensione al gioco delle «dame», espose in una bottega di caffè un manifesto, nel quale sfidava chiunque. Io credeva di non esser in quel gioco a chi che si fosse inferiore. Volli però cimentarmi. Gli feci fare l’offerta, ed ei l’accettò, fissando la somma del danaro da giocarsi e il numero delle partite. Io non aveva danaro che per pagare la prima, se avessi perduto. Come però guadagnai, cosi seguitammo a giocare, ed io gli vinsi in breve ora le dodici partite fissate, dieci delle quali fúr doppie. Mi pagò sul fatto ventidue piastre e confessossi inferiore. Alcuni giovani della universitá, ch’erano stati presenti e che pensavano forse di vendicare l’amico, rigua dagnandomi quel danaro, mi proposero una partita al gioco dell’«ombre». Secondo l’uso del paese sarebbe stata scortesia il rifiutarla. Mi convenne dunque accettare l’invito, quantunque fosse contra mia voglia. Ebbi la fortuna però di guadagnare anche a questi; e, prima che suonasse la mezzanotte, andai a casa dopo una buona cena e con trentasei piastre in tasca.

Questo cambiamento improvviso mi diede un felice presagio per l’avvenire. Seguitai a giocare per vari giorni, sempre vincendo.

Questa maniera però di vivere non mi piaceva molto. È vero che aveva occasione di conversare spesso co’ piú nobili personaggi e coi piú chiari ingegni di quella cittá, e specialmente coll’impareggiabile Cesarotti, a cui non so se piú il Memmo o qualche mio verso m’aveva reso caro. Sebbene però trovato avessi nel favore della fortuna quello che la pietá degli uomini m’aveva negato, pur, ricordandomi de’ casi passati e desiderando di cor rere vie piú onorate, risolsi improvvisamente di lasciar Padova e di tornare a Venezia. Caterino Mazzolá, colto e leggiadio poeta, ed il primo forse che seppe scrivere un dramma buffo,