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capitolo iii. 43


— Non è, gridò, giunta a tanto ancora la miseria nostra che manchino braccia e spade per ricacciare in gola a questo ladrone francese, quanto in malora sua gli è fuggito di bocca. E Dio ti benedica la lingua, Inigo, fratel mio (e stretto lo teneva abbracciato), e t’avrò obbligo eterno della cura che avesti dell’onor nostro, nè in vita nè in morte me ne terrò sciolto mai. E le carezze per una parte, come le profferte per l’altra, non avean fine. Quietato un poco questo primo calore:

— Qui, disse Fieramosca, è tempo non di parlare, ma d’operare. — E chiamato un servo, mentre l’ajutava vestirsi, veniva nominando i compagni che si sarebber potuti sceglier a quest’impresa, pensando far grossa compagnia più che potesse.

— Molti, diceva, sono i buoni fra noi, ma la cosa troppo importa; scegliamo i migliori. — Brancaleone. È uno. Non vi sarà lancia francese che lo pieghi d’un dito, con quel pajo di spalle che ha a’ suoi comandi. — Capoccio e Giovenale, tutti e tre romani: e ti so dire che gli Orazi non tenevano la spada in pugno meglio di loro. E tre. — Andiamo avanti. — Fanfulla da Lodi, quel matto spiritato, lo conosci?

Inigo alzò il viso aggrottando un poco le ciglia, e stringendo le labbra, come fa chi vuol ridursi a mente qualche cosa.

— Oh lo conosci senz’altro! Quel Lombardo, lancia spezzata del sig. Fabrizio.... quello che l’altro giorno galoppava sulla grossezza del muro del bastione alla porta a S. Bacolo....

— Oh sì sì! — rispose Inigo, ora mi ricordo.

— Bene. E quattro. Costui finchè avrà le mani le saprà menare. — Io sarò il quinto, e coll’ajuto di Dio farò il dovere. Masuccio, gridò chiamando un famiglio. Bada che ieri si ruppe la guiggia dello scudo, falla aggiustare, e tosto; senti: alla spada