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notturno 255


Più lontanamente mi ricordo di te quando approdasti in quel porto d’Irlanda fosco con mille e mille cumuli di carbone fumiganti, minacciato da un sole disastroso. L’attesa senza volto ventilava un che di candido in mezzo al fumo. Mi pareva di vederti oscillare lassù, a bordo della nave enorme, come la penna d’una freccia infissa nel corpo d’un colosso che non muore. Ignoravo il tuo nome. Ma all’improvviso udii cantare, dall’albero di quella nave senza vele, la vedetta d’Isotta. «Sventura, ahi sventura, donna d’Irlanda, amor selvaggio!»

Ecco che di nuovo io prendo una forma appropriata all’ignoto e alla melodia.

Ho pur sempre una bocca di metallo, e da tempo non so altro sapore che quello dell’acciaio temperato nel mio sangue spesso.

Resta con me. Serra la porta. Na-