civiltà che paiono immobili, eppur devono contenere un, sia pur tenue, fuoco di critica se, pur lentissimamente, s’evolvono; e su gli scoppi rivoluzionari che sembrano far tabula rasa, eppure ereditano, inevitabilmente, la struttura stessa di ciò che cancellano: a parte queste considerazioni già fatte, le quali mostrano la critica così poco «coesistente» con la tradizione che invece ne è la vita interiore, e la tradizione così poco coesistente con la critica che ne è la materia, l’oggetto interno, per così dire, che la critica penetra e rinnova; anche nei nostri Stati moderni in cui pare che tutta l’obbedienza allo Stato si polarizzi nei partiti d’ordine e tutta la innovazione nei partiti rivoluzionari, in realtà nei partiti che affermano la tradizione c’è spesso assai più coraggio innovatore che nei partiti rivoluzionari, e in questi, molto spesso, la mentalità abitudinaria è istintiva e predomina. E, in ogni caso, per quanto una parte della nazione si proponga il più scrupoloso mantenimento della tradizione, cioè della legge, già il solo applicarla, interpretarla, adattarla alle circostanze via via mutevoli, è un riviverla, che è un rinnovarla; e, per contrario, chi facesse uno studio di molta mentalità rivoluzionaria, vi troverebbe, proprio alla base, un cospicuo numero di postulati, comuni ai partiti d’ordine: sicchè il rivoluzionarismo, piantato su quelle basi prettamente tradizionali, appare superficiale, e tutt’altro che «puro».

La risposta alla seconda domanda, dunque, sembra essere che è una contingenza storica che obbedienza allo Stato e critica allo Stato sembrino coesistere, ciascuna rappresentata da una parte della nazione, in lotta con