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104 libro terzo

ad impaurirsi dello staffile, o delle verghe o del bastone siccome punizione di furto: Colombo applicò, dunque, agli Indiani la pena in vigore in Castiglia1 contro i ladri recidivi. Quest’era un introdurre nel codice criminale degli indigeni un temperamento cristiano. Nondimeno questa umanità, che fu certamente benedetta e ammirata dagl’isolani, scandolezzò la bacchettoneria filantropica di una certa scuola.

L’accusa di crudeltà lanciata a Colombo sembra principalmente giustificata da circostanze accompagnanti il supplizio di Adriano di Mogica.

Ricordiamo brevemente i fatti.

Dopo la sua ultima ribellione, Adriano di Mogica fu arrestato improvvisamente in un conciliabolo notturno co’ suoi principali complici dal gran-giudice Roldano, il quale scrisse all’Ammiraglio, occupato da più settimane alla costruzione della fortezza della Concezione, per dimandargli i suoi ordini. L’Ammiraglio rispose che questa nuova sollevazione essendo avvenuta senza alcun motivo, la sua impunità produrrebbe effetti deplorabili: che doveva, dunque, venir fatta giustizia di tal ribellione, conforme alle leggi del regno: per conseguenza il gran-giudice fece fare il processo di Mogica e de’ suoi complici.

La sentenza condannò Mogica, qual capo di complotto, alla pena di morte, e i suoi coaccusati, secondo il grado della loro partecipazione, gli uni al bando perpetuo, gli altri a prigionia temporaria. Nel momento del supplizio fu mandato a Mogica un prete; ma costui, sin allora insolente e bravaccio, vedendo che, nonostante la sua nobiltà e i suoi amici, la cosa si faceva seria, fu preso da paura: studiandosi di guadagnar tempo, rifiutava di confessarsi: fu condotto sugli spalti della cittadella; il prete lo esortava, ed ei rifiutava di ascoltarlo, per ritardare il momento terribile. Il gran-giudice, informato di questo maneggio, indegnato di tal codardia succeduta a tanta arroganza, comandò di attaccar la corda ad uno dei merli e di lanciare il condannato giù dal bastione.

  1. “Quibus deinde furto gravius iterum cœsis aures amputantur” — Luici Marini Siculi, De rebus Hispaniœ, lib. XIX.