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l’ora cheta 139


Nei remoti futuri, in meriggi più ardenti di quanti furono sognati dagli artisti; laggiù, dove gli dèi si vergognano delle loro vesti!

Ma io amo vedervi travestiti, o miei vicini e compagni, e ben adornati, e vani, e dignitosi, come si confà «ai buoni e ai giusti».

E anch’io verrò a sedermi travestito in mezzo a voi — per potermi ingannare sul conto di me stesso e sul vostro: giacchè questa è l’ultima mia prudenza umana».

Così parlò Zarathustra.




L’ora cheta.

«Che cosa m’accadde, o miei amici? Voi mi vedete turbato, desideroso di partire, obbediente contro la mia volontà, pronto, ahimè, a lasciarvi!

Sì un’altra volta Zarathustra deve recarsi nella sua solitudine: ma a mal cuore l’orso ritorna oggi alla sua tana!

Che cosa m’accadde? Chi mi impone di far ciò? — Ahimè, così vuole la mia fiera signora; essa mi parlò; v’ho io già detto il suo nome?

Ieri sull’imbrunire mi parlò la più deliziosa delle mie ore: questo è il nome della mia terribile signora.

Così avvenne — poichè a voi devo dir tutto, affinchè il vostro cuore non si faccia duro contro colui che deve improvvisamente partire!

Conoscete voi lo sgomento di chi sta per addormentarsi?

Sino alla estremità delle dita dei piedi egli è atterrito dal sentir mancare la terra e incominciare il sogno.

Questo vi narro in forma di parabola. Ieri, nell’ora più silenziosa, mi mancò la terra: il sogno cominciò.

La sfera si pose in movimento, l’orologio della mia vita prese fiato — nè mai mi circondò una quiete più profonda: talchè il mio cuore n’ebbe paura.