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c a n t o     xxxi. 805   

22Che la luce divina è penetrante
     Per l’universo, secondo ch’è degno,
     Sì che nulla li può essere ostante.
25Questo siguro e gaudioso regno,
     Frequente in gente antica et in novella,
     Viso et amor avea tutto ad un segno.
28O Trina luce, che ’n unica stella1
     Scintillando a lor vista sì li appaga,2
     Guardi qua giuso a la nostra procella.
31 Se i Barbari, venendo di tal plaga,
     Che ciascun giorno d’Elice si cuopra,
     Rotante col suo fillio und ella è vaga,
34Veggendo Roma e l’ardua sua opra
     Stupefaciansi, quando Laterano3
     A le cose mortali andò di sopra;
37Io, che al divino da l’umano,
     A l’eterno dal tempo era venuto,
     E di Firenze al popul iusto e sano,4
40Di che stupor dovea esser compiuto!
     Certo, tra esso e ’l gaudio mi facea
     Libito non udire, e starmi muto.
43E quasi peregrin, che si ricrea
     Nel tempio del suo voto riguardando,
     E spera già ridir com’elli stea,
46Su per la viva luce passeggiando,
     Menava io li occhi per li gradi
     Mo su, mo giù, e mo ricirculando.

  1. v. 28. C. A. che unica
  2. v. 29. Appaga. In sul nascere del nostro idioma fu terminata più ragionevolmente in a la seconda persona singolare del presente indicativo, siccome in latino. E.
  3. v. 35. C. A. Stupefaceansi,
  4. v. 39. C. A. E di Fiorenza popol giusto