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Fatto sta che, a furia di mutar posto tutti i giorni, sulla panca dei Romani non c’era più un romano che volesse accettarmi per suo vicino.

Fui mandato, per ultimo ripiego, fra i Cartaginesi, e mi trovai accanto al più buon figliuolo di questo mondo, un certo Silvano, grasso come un cappone sotto le feste di Natale, il quale studiava poco, questo è vero, ma dormiva moltissimo, confessando da sè stesso che dormiva più volentieri sulle panche di scuola che sulle materasse del letto.

Un giorno Silvano venne a scuola con un paio di calzoni nuovi di tela bianca. Appena me ne accorsi, la prima idea che mi balenò alla mente fu quella di dipingergli sui calzoni un bellissimo quadretto, a tocco in penna. Tant’è vero, che quando l’amico, secondo il suo solito, si fu appisolato coi gomiti appoggiati al banco e con la testa fra le mani, io, senza metter tempo in mezzo, inzuppai ben bene la penna nel calamaio, e sul gambale davanti gli disegnai un bel cavallo, col suo bravo cavaliere sopra. E il cavallo lo feci con la bocca aperta in atto di mangiare dei grossi pesci, perchè così si potesse capire che questo capolavoro era stato fatto di venerdì, giorno in cui generalmente tutti mangiano di magro.

Confesso la verità; ero contento di me. Più guardavo quel mio bozzetto, e più mi pareva di aver fatto una gran bella cosa.

Così, però, non parve al mio amico Silvano: il quale, svegliandosi dal suo pisolino e trovandosi sui calzoni bianchi dipinto con l’inchiostro un soldato e un cavallo che mangiava i pesci, cominciò a piangere e a strillare con urli così acuti, da far credere che qualcuno gli avesse strappato una ciocca di capelli.